Prima infanzia

Non dobbiamo temere di offrire cose troppo elevate ai nostri bambini.

È importante insistere su questa necessità della natura umana e sottolineare come l'uomo, grazie al principio spirituale che lo vivifica, si rapporti a tutto ciò che lo circonda in modo ben diverso rispetto a tutti gli altri enti non intelligenti. La persona grazie al lavoro della ragione e della volontà entra in relazione con ciò che è altro da sé e si arricchisce attraverso un processo di interiorizzazione che si compie a livello spirituale e che supera in perfezione ogni assimilazione o trasformazione che possa realizzarsi nella materia.

«Certamente, nel mondo dei corpi, nel mondo dell'azione transitiva, ricevere dal di fuori è un puro subire ed è certamente contrario alla spontaneità vivente, appunto perché si tratta di cose non vive, che, incapaci di attuarsi da se stesse, non sono che luoghi di passaggio e di trasformazione per le energie dell'universo. Ma nel mondo spirituale ricevere da altri, dapprima è indubbiamente un subire, ma solo a titolo di condizione presupposta, ma in essenza poi è agire, attuarsi interiormente e manifestare l'autonomia di ciò che veramente è vivente. Giacché è proprio delle cose spirituali di non esser murate nel loro essere particolare e di potersi intrinsecamente accrescere con l'essere medesimo di altre cose ch'esse non sono.

Se la legge dell'oggetto, la legge dell'essere s'impone all'intelligenza, è perché l'intelligenza completi vitalmente se stessa, in un'azione che è una pura qualità immateriale, e in cui quello stesso che costituisce l'altro in quanto tale diviene perfezione sua propria. E se la legge dell'ultimo Fine, la legge del bene s'impone alla volontà, è perché l'amore facendosi una sola cosa con l'Autore d'ogni bene si ancora, - secondo la sua legge, una legge divenuta nostra - la più profonda e la più intima attrattiva che noi seguiamo. Quello è il vero mistero dell'attività immanente, l'interiorizzazione perfetta, mediante conoscenza e amore, di ciò che è altro o da un altro proviene e non da noi11».

Secondo questa particolare "legge dello spirito" l'uomo può entrare in relazione con ciò che è altro da sé in un modo assolutamente unico, e grazie a questa comunicazione porta se stesso a una attuazione spirituale che è specificamente umana e che trascende il sistema di interazione tipico del mondo puramente fisico. Così grazie alla relazione con i suoi simili, e anche a quelle che intervengono con l'ambiente materiale, nella conoscenza e nell'amore, la persona umana può compiere il suo cammino di autoperfezionamento.

Alla luce di queste osservazioni si può comprendere anche il fatto che, essendo lo spirito il vero regista di tutto il processo di sviluppo della persona, cominciando dalla formazione del corpo e finendo ai processi di autorealizzazione della persona, non esiste mai un momento nel processo di autocostruzione in cui lo spirito possa fare a meno del suo nutrimento naturale, cioè dell’essere. La vita della persona è in ogni momento vita di un soggetto insieme spirituale e materiale, dove solo la materia subisce i ritmi della gradualità quantitativa. Lo spirito, di per sé, non è soggetto a crescita o a diminuzione, lo spirito non è mai piccolo. La vita intellettiva che abita ogni persona non ha età, non invecchia e non è mai piccola. E questa vita intellettiva si nutre solo dell’essere, dell’essere che si presenta con il suo volto di unità, verità, bontà, bellezza. Così i valori non si possono restringere, abbassare, ridurre, fare “più semplici”. I valori sono assolutamente semplici e in forza di questo sono sempre una totalità. Così, mentre i mezzi per comunicarli o scoprirli, e quindi anche le diverse attività proposte, devono essere proporzionate all’età, i valori sono semplicemente ciò che sono. Proprio così, lo spirito non ha tempo e, in forza di tale realtà, non dobbiamo temere di offrire cose troppo elevate ai nostri bambini.

A ben vedere, però, questi valori a cui l’essere umano costantemente tende per natura, ciò di cui lo spirito si nutre e in cui si completa, non sono altro che i trascendentali dell’essere. Uno dei capitoli più consistenti dei manuali di metafisica, si sa, è rappresentato dai trascendentali. Fin dall’origine della riflessione filosofica i vari pensatori hanno girato intorno a queste nozioni così capitali: uno, vero, bene, bello e ne hanno analizzato in modo diverso le possibili convergenze con l’essere, ponendo ora l’uno ora l’altro al vertice della considerazione. Ma la metafisica come può essere portata all’interno di un progetto educativo per bambini o ragazzi giovani?

11 ID., Tre riformatori - Lutero Cartesio Rousseau, Morcelliana, Brescia 1983, pp. 86-87.

Andando alla radice di concetti grandi, li interiorizziamo e li trasmettiamo vivendoli.

Dagli astratti concetti metafisici si potrà mai trarre qualcosa di interessante per le progettazioni didattiche di una scuola d’infanzia, primaria o secondaria? É come avere davanti quelle che possono essere immaginate come le due sponde di un fiume da collegare fra loro con un solido ponte: da un lato troviamo il bambino o il ragazzo che vive la sua giornata nella nostra scuola e dall’altro c’è una elaborazione antropologica e metafisica rigorosa ed efficace custodita dalla tradizione filosofica domenicana.

A colpo d’occhio la loro distanza può sembrare incolmabile: in effetti, come può la dottrina sui trascendentali dell’essere (ciò che fa mettere le mani nei capelli a ogni diligente studente di filosofia teoretica) dire qualcosa a chi ogni mattina arriva ancora con il ciuccio in bocca e il pannolino? Come ci poteva venire in mente di chiedere consiglio ad Aristotele, a Platone o a san Tommaso su come impostare una percorso educativo per bambini o ragazzi giovani?

Ciò che inizialmente sembrava impossibile si è rivelato pian piano una via molto feconda, proprio perché ciò che è autenticamente naturale, cioè richiesto dalla stessa dignità della persona umana, viene ancor più spontaneo al bambino di quanto non lo sia per l’adulto. Così, questi alti concetti metafisici diventano il pane quotidiano se, andando alla loro radice, si scoprono nella loro profonda semplicità. É poi facile comprendere che tali principi metafisici non si traducono in “lezioni” da tenere ai bambini: sarebbe semplicemente ridicolo. Essi rappresenteranno invece il terreno comune di formazione, riflessione e confronto fra le insegnanti in modo da poter trasmettere ai bambini, quasi per contagio, un atteggiamento, una modalità di approccio rispetto all’altro, a se stessi e alle cose.

È fondamentale allora curare particolarmente l’interiorizzazione da parte delle insegnanti di alcuni principi fondamentali che riescano a dare pian piano un determinato sapore alla vita e vita al lavoro in modo che non solo con l’insegnamento o le attività proposte, ma anche e soprattutto nell’atteggiamento, nel modo col quale salutano, gratificano o riprendono un bambino possa trasparire un preciso stile, un modo speciale di considerare la persona che hanno davanti. Non ci spaventi dunque questo riferimento alla metafisica. Dalla nostra esperienza emerge con chiarezza che per il bambino non è per nulla innaturale essere autenticamente “filosofo”, cioè amante della sapienza, capace di incantarsi davanti alle cose, mai sazio di investigare la realtà, sempre pieno di ulteriori risorse per riuscire a gioire di fronte alle cose che a noi adulti sembrano banali.

Per mostrare in concreto come si possano tradurre i valori dello spirito in percorsi educativi indirizzati ai bambini, abbiamo pensato di partire da quattro semplici parole, parole che a volte possono perfino sembrare banali, e mostrarne il collegamento proprio con gli alti concetti metafisici espressi nei trascendentali, e quindi, mostrare come partendo da queste quattro parole si possano individuare obiettivi educativi molto profondi. Tenendo conto del fatto che la relazionalità è fondamento ed esigenza di educazione, abbiamo scelto le parole che il bambino impara a pronunciare fin dalla più tenera età per stabilire un rapporto con l’altro: CIAO – SCUSA – PER FAVORE – GRAZIE. Queste parole, di uso comune, racchiudono una profonda ricchezza che spesso viene trascurata.

Dicendo ciao esco dall'indifferenza ed entro in contatto con te, unico e irripetibile: UNO.
Con il “ciao” noi compiamo il primo passo vero l’altro: ci avviamo a prendere in considerazione che esiste un altro e che questo “altro” non ci è totalmente estraneo, indifferente; non è più anonimo per noi. Attraverso il ciao rendiamo l’altro visibile ai nostri occhi, presente al nostro pensiero, raggiungibile dalle nostre attenzioni, capace di suscitare in noi precise emozioni. Gli riconosciamo quindi un’esistenza significativa per noi e gli consentiamo di emergere dall’indifferenza e di entrare in contatto con la nostra esistenza. É evidente che nel momento in cui ci accorgiamo dell’alterità di chi si pone davanti a noi, ci rendiamo anche conto della nostra identità, della nostra originalità e unicità e viene manifestato che l’unicità riguarda proprio l’essere persona che, in quanto tale, è assolutamente in-duplicabile. Perciò accorgersi e avere attenzione per l’altro implica un accorgersi e avere attenzione per se stessi. È implicito in questo modo il riconoscimento dell’altro come un “tu”, come un soggetto diverso da me, con una sua unicità e dignità. In questa diversità è però anche compresa una “parità” rispetto a me, tanto che con lui posso davvero entrare in una relazione “io – tu”.

Attraverso il “ciao” dunque, non solo ci accorgiamo dell’esistenza dell’altro, ma gli conferiamo anche un preciso valore, quello di soggetto, di persona, di essere capace di dialogo. E se l’altro è un valore in se stesso, dobbiamo avere attenzione per lui e accoglierlo come essere portatore di una sua intrinseca ricchezza indipendentemente da quanto sia utile o simpatico. L’altro esiste davanti a noi, ha una sua precisa consistenza e realtà e dunque non può essere totalmente assorbito all’interno della nostra soggettività e non può mai essere oggetto del nostro possesso. L’altro è diverso, e come me è unico, è originale.

Con questa semplice parola rievochiamo ciò che è proprio di ogni ente: la propria identità-determinazione, la propria unità-unicità, la distinzione da ciò che è altro, rievochiamo ciò che è espresso dal trascendentale unum (o più precisamente dai trascendentali res, unum, aliquid). L’obiettivo educativo generale è pregnante di significato e riguarda il cammino fondamentale di riconoscere consistenza all’ente e di uscire dall’indifferenza e dalla “in-distinzione”.

Dicendo scusa esco dall’isolamento e ristabilisco l’armonia che si era spezzata: il VERO.

L’essere umano ha la possibilità di riconoscere e di leggere l’ordine all’interno del quale si trova e, proprio per questa sua capacità di vedere l’armonia esistente nelle cose, sa ben accorgersi quando questa manca. L’esigenza del bene, del vero, del bello sono connaturali alla persona e nessuno è contento quando queste esigenze profonde vengono disattese. Si può dire allora che la verità ha un potere “obbligante”. Anche se è a volte difficile da accettare, ognuno di noi è tenuto a rispettare l’ordine che lo trascende, che lo supera, che quindi in qualche modo “non lo consulta”. La realtà, l’essere, la verità, in qualsiasi modo si voglia chiamare tutto ciò che è strutturalmente indipendente dal nostro arbitrio, ci inchioda, ci mette con le spalle al muro; le esigenze della verità (cioè della realtà) non sono modificabili dalle nostre convinzioni. Per esempio, non è sufficiente essere convinti che il fumo sia un bene per eliminare gli aspetti nocivi legati all’introduzione di nicotina nel nostro organismo. La realtà, infatti, non si piega al nostro volere, ci è chiesto invece di armonizzare noi stessi con le verità proprie della natura umana.

Saper chiedere scusa significa riconoscersi non adeguati ad un ordine che non dipende dal nostro arbitrio, vedere la necessità di armonizzarsi con il tutto, cogliere l’importanza dell’obbedienza più radicale e imprescindibile: l’obbedienza alla realtà, cioè alla verità. Solo per inciso è da osservare che l’ottenimento del perdono (che viene legato strettamente alla necessità di chiedere scusa), non esonera comunque dalla necessità di ricomporre l’ordine e l’armonia che sono stati compromessi. Il perdono, infatti, consiste nel ricucire un legame di amicizia che è stato spezzato, ma l’ordine infranto va comunque riaffermato. Chi non ritiene di dover chiedere scusa e di non riconoscere queste oggettive esigenze del bene è di fatto imprigionato dentro se stesso, egli si costituisce legge a se stesso, ma in questo modo il suo io diventa anche la sua prigione. Chi non impara a chiedere scusa di fatto si isola, è come se tagliasse i ponti con la realtà, chiuso in un soggettivismo che non genera altro che tenebre e chiusura.

Il termine scusa evoca inequivocabilmente il trascendentale verum, questa luce dell’essere che nutre la nostra intelligenza e illumina il nostro agire. Il riferimento all’oggettività del vero e alla sua identità con l’essere è di fatto un indispensabile modo per uscire da se stessi e nutrirsi della ricchezza della realtà, ed è inoltre l’unico autentico modo per entrare davvero in relazione con l’altro. Se infatti non ci fosse un riferimento extrasoggettivo, il rapporto con l’altro risulterebbe quasi fittizio, certo assolutamente sterile e incapace di superare il conflitto se non accontentandosi del compromesso.

Dicendo per favore, esco dall’autosufficienza e soddisfo il desiderio di BENE.

L’essere umano non è mai “sazio” e continuamente aspira a un di più, a un meglio. In quanto ente finito, infatti, egli non basta a se stesso e deve quindi uscire da sé per incontrare il proprio bene, poiché egli non è “tutto il suo bene”. Per perfezionarsi, per completarsi, per essere “intero”, deve volgersi alla ricchezza che trova intorno a sé e che riconosce negli altri. La chiusura in se stessi, che si manifesta nell’autosufficienza o nella superbia, impedisce una compiuta realizzazione di se stessi. La finitezza che è propria dell’essere umano è dunque un aspetto ontologico che ha un importante riverbero esistenziale. Ogni persona infatti ha in sé un anelito di bene per rispondere al quale deve volgersi verso ciò che è altro da sé. Prendere consapevolezza di se stessi come enti finiti, limitati, strutturalmente indigenti significa capire la necessità di imparare a chiedere “per favore”. Saper dire per favore significa allora essere in grado di uscire da una presunta e ingannevole autosufficienza e aprirsi alla collaborazione, disporsi a ricevere in dono, sostenere i desideri di bene e di perfezione.

Emerge qui la meravigliosa funzione del desiderio nel cammino verso la felicità; il desiderio è ciò che accompagna l’amore di un bene conosciuto, o anche solo intravisto, ma non ancora presente. Il desiderio è dunque una molla potente e indispensabile per la realizzazione dell’individuo umano. Le crisi di tanti giovani nascono probabilmente proprio dalla mancanza di desideri, dei giusti desideri. Non sarebbe esagerato affermare che siamo ciò che desideriamo, e questo in un duplice modo: perché siamo soggetti capaci di autodeterminazione e quindi abbiamo la possibilità di disporre di noi e delle nostre azioni; e soprattutto perché dai desideri che coltiviamo viene manifestato il nostro essere. La mancanza di desideri (come aspirazioni verso il bene autentico) in molti bambini e in molti adulti ci fa riflettere sulla necessità dell’educazione “dei” e “ai” desideri. Questo impegno educativo riguarda non solo la coltivazione dei desideri di bene presenti, riuscendo a dosare sapientemente concessioni e attese, ma anche l’impegno a suscitare nuove aspirazioni, aprendo orizzonti più ampi di bontà non confinata al mondo dei consumi, per offrire al soggetto motivi più alti e più solidi di gioia. Collegato al per favore è, dunque, l’apprezzamento della bontà, e non è difficile riconoscere l’attinenza di questa espressione con il trascendentale bonum. Questo collegamento risulta oltremodo importante per sottolineare il primato del bene rispetto all’amore e al desiderio umano e dunque anche rispetto al piacere. Non è la volontà umana a dare spessore e a fondare il bene, ma, al contrario, è il bene, il bene ontologico, inteso come perfezione propria dell’essere, che origina e fonda l’amore umano, nutre il desiderio, genera il piacere e la gioia. E tale primato è ciò che veramente dà un’adeguata rilevanza al per favore, lo fa autentico e lo costituisce valido strumento educativo per estirpare dal cuore umano un vero impedimento alla felicità: la presunzione di autosufficienza.

Dicendo grazie esco dalla tristezza, come riconoscimento di una gratuità: il BELLO.

L’uomo di oggi ha perso il gusto del puro e semplice contemplare e proprio per questo motivo siamo soliti dire “grazie” solo quando una persona soddisfa i nostri bisogni o i nostri progetti e pensiamo che il significato del “grazie” sia solo questo. Ma forse non è così.

Saper dire autenticamente “grazie” rispecchia invece un preciso atteggiamento interiore verso la realtà, connotato dalla profonda consapevolezza che tutto ciò che esiste, nel momento stesso in cui esiste, è portatore di una bellezza che mi è stata gratuitamente consegnata, affidata, donata.

Chi sa dire grazie, dunque, sa apprezzare la grazia, nel duplice aspetto di bellezza e di gratuità, e sapendo gustare la realtà indipendentemente dal fatto che essa sia funzionale ai propri bisogni, che sia utile o consumabile, non potrà che essere una persona ricolma di innumerevoli motivi di gioia.

Collegato al grazie troviamo dunque il trascendentale pulcrum che pone l’accento sullo splendore dell’ente nella sua intrinseca armonia. Non è difficile accorgersi che la bellezza è uno speciale tipo di bontà: dice certo che la realtà osservata ha una sua armonia e completezza, ma dice anche che il modo specifico di gustare questo tipo di bontà non comporta il fatto di inglobarla, di impossessarsene, di consumarla. La bellezza è una bontà che richiede il rispetto, altrimenti si distrugge e non è più motivo di gioia. La bellezza è un bene che si gusta nella pura contemplazione. Non solo le opere d’arte hanno allora questo tipo di bontà, ma ogni cosa, piccola o grande che sia, se non altro per la perfezione che porta in quanto esistente, manifesta, a chi possiede occhi per vedere, un suo intrinseco splendore, una sua sublimità. Se la bellezza è una bontà di cui posso gioire alla sola condizione di non consumarla, vuol dire che questa peculiare bontà possiede intrinsecamente la caratteristica della gratuità. Gratuito in questo caso non è solo ciò che mi viene donato senza mio diritto, ma è qualcosa che in se stesso ha una consistenza e un valore proprio perché non “serve”. Per noi oggi non è un concetto facile da cogliere: ciò che è in se stesso un valore, propriamente non “serve”, non è a servizio di nulla e di nessuno, ed esprime in questo modo la sua propria regalità. L’essere umano non ha dunque solo bisogno delle cose che sono a lui utili per colmare i suoi bisogni, o delle cose che sono “consumabili”, ma ha esigenza soprattutto di quella perfezione che non rimanda ad altro perché ha in se stessa valore e preziosità. Si potrebbe dire allora che nulla è più necessario all’uomo di ciò che è superfluo.

Chi coltiva occhi per cogliere la grazia (che non a caso unifica in sé i due significati di bello e di gratuito) sconfigge la tristezza dal proprio cuore perché non gli mancheranno mai i motivi per gioire.

Naturalmente questi obiettivi educativi vengono estrapolati e colti nei percorsi didattici e nei piani di lavoro, nell’involucro di racconti, storie ed esercizi come verrà descritto più avanti nelle attività didattiche.

Inoltre è nostra cura specialissima quella di incoraggiare i genitori a un coinvolgimento costruttivo nel percorso formativo. Questo aiuta noi a fare sempre meglio il nostro lavoro, aiuta il bambino a vivere fino in fondo gli spunti proposti per la sua formazione, aiuta i genitori stessi che sono chiamati a rivestire il ruolo più difficile e delicato del mondo. Questo è dettato non solo dal buon senso, dalla tradizione, dalla legge naturale, ma anche dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli” (Art. 26, 3).